L’inizio di ogni nuovo anno porta con sé, come da tradizione, la lista dei buoni propositi per i dodici mesi successivi.
Come spesso accade, la nuova lista difficilmente si discosta da quella dell’anno precedente, principalmente per due ragioni: o perché non siamo riusciti a raggiungere gli obiettivi che ci eravamo preposti e quindi ci trasciniamo di anno in anno situazioni irrisolte che pesano sul computo della nostra autorealizzazione; o perché la voglia di cambiare non è abbastanza forte da sconfiggere l’inerzia dello status quo e si preferisce continuare a sbagliare piuttosto che porre rimedio e invertire la rotta.
Ovviamente, questi ragionamenti non valgono solo per gli obiettivi personali di ognuno, ma anche, e forse soprattutto, per gli obiettivi di business che richiederebbero spesso scelte difficili, radicali, drastiche, ma quanto costa fare queste scelte (sia in termini di stress che di effort)?
Gli ultimi due anni di pandemia, con i suoi alti e bassi, le sue impennate e ricadute, hanno messo i manager di tutti i settori dell’industria a dura prova: “nave senza nocchiere in gran tempesta”, direbbe il poeta, i manager si sono trovati a decidere senza coordinate né dal passato (a mare tutte le serie storiche e le previsioni ad esse connesse), né sul presente (quando l’unità di misura non sono né le settimane, né i giorni ma a dirittura i minuti), né sul futuro (che è già un’incognita di per sé, ma adesso sembra una scommessa persa in partenza). Chi si affidava all’esperienza e al buon senso ha capito che l’istinto non basta più.
Senza strumenti di controllo, di analisi, di previsione e di supporto alle decisioni i buoni propositi per il nuovo anno rimangono bullet point su un foglio (di calcolo), forse come l’anno prima e quello prima ancora e quello primo ancora. Non è incapacità, né mancanza di visione o di strategia, è istinto di sopravvivenza e processo di adattamento: se per illuminare la notte l’uomo primitivo ha creato il fuoco, per decidere quale strada percorrere nel buio pesto di questi anni, il manager moderno ha fatto ricorso all’AI.
L’intelligenza artificiale aiuta a decidere meglio o è meglio decidere con l’aiuto dall’intelligenza artificiale?
A metà tra provocazione gioco, l’istituto di ricerca e sviluppo Smithsonian ha proposto di delegare le decisioni da prendere per questo nuovo anno ad un’intelligenza artificiale che sceglierà per noi in quali attività impegnarci. Un po’ come il vecchio e caro “Libro delle risposte”, il Generatore di risoluzioni suggerisce agli utenti gli impegni da assumere in modo del tutto randomico, restituendo risposte bislacche come: “vai in una libreria e dì a tutti che sei una giraffa”, oppure “ogni venerdì dell’anno indossa un cappello”.
Qual è il gioco o la provocazione dietro a questa sorta di arte performativa digitale: metterci di fronte alle nostre incapacità decisionali, o meglio all’incapacità di dare seguito con le azioni alle nostre decisioni.
Che differenza c’è tra il proposito di dipingere un quadro al giorno o perdere quindici chili quando sappiamo già che non faremo nessuna delle due cose?
Non è importante, dunque, cosa ci viene suggerito di fare se poi, nella realtà, non lo facciamo.
Proviamo ad applicare questo ragionamento al business.
Che senso ha avere un’immensa mole di dati a nostra disposizione, in grado di fornirci svariate informazioni, se poi non la usiamo per prendere decisioni migliori?
Ancora, che senso ha avere un’intelligenza artificiale in grado di combinare grandi quantità di dati per avere informazioni utili a prendere
decisioni migliori, se poi non agiamo per trasformare quelle indicazioni in piani attuativi?
Ancora, che senso ha prendere giuste decisioni, compiere scelte difficili per portarle avanti, investire tempo, soldi e risorse per raggiungere un obiettivo e poi non misurarne i risultati?
È come iscriversi in palestra senza andarci, andare in palestra e perdersi in chiacchiere, mettersi a dieta e non pesarsi.
Il compito dell’Intelligenza artificiale è (anche) quella di suggerire soluzioni alternative a problemi ricorrenti, sfidando i decisori ad uscire dal seminato dell’esperienza pregressa e intraprendere vie alternative sulla scia dell’innovazione, del cambiamento costante e delle opportunità che l’evoluzione e il progresso (non solo tecnologico) offrono.
Cambiamento climatico. Divisione sociale. Inflazione. Virus e varianti di virus sono solo alcune delle variabili da tenere conto nelle scelte di business, ma ce ne potrebbero essere moltissime altre a cui non abbiamo nemmeno mai pensato.
Questo non vuol dire appaltare il compito di prendere decisioni difficili all’intelligenza artificiale, anzi, significa esattamente il contrario. L’intelligenza artificiale non può dirci se andare al mare o in montagna, può solo indicarci il modo più rapido per arrivarci, una volta che noi abbiamo impostato li punto di destinazione.
Salvare il pianeta o diventare ricchissimi?
In questi giorni si è molto parlato di un film comparso sul catalogo di Netflix nel mese di dicembre, Don’t look up.
Il film, senza fare spoiler, racconta della scoperta da parte di un piccolo gruppo di scienziati dell’esistenza di una gigantesca cometa in rotta di collisione con la Terra che provocherebbe l’estinzione del genere umano. Il film, al di là dei giudizi critici, è interessante perché offre uno spaccato piuttosto realistico su come vengono prese decisioni di vitale importanza a vari livelli della società: la comunità scientifica segue i dati, la televisione e i media seguono il criterio di notiziabilità, la politica quello di opportunità e il business quello del profitto.
Il personaggio sicuramente più interessante per i nostri ragionamenti è quello dell’imprenditore Peter Isherwell, un mix di Jeff Bezos, Tim Cook e Steve Jobs, Elon Musk e Mark Zuckerberg, fondatore e amministratore di un’azienda di alta tecnologia che realizza prodotti basati sull’intelligenza artificiale.
Isherwell utilizza gli algoritmi per qualsiasi cosa: per leggere le sensazioni dei propri utenti attraverso le azioni compiute sui loro device, per indurre stati di benessere suggerendo loro contenuti che ne modificano le emozioni, il suo algoritmo previsionale è così potente da riuscire a conoscere addirittura le cause di morte di ciascuno con una percentuale del 96,5% di accuratezza.
Il paradosso di questo personaggio, all’apparenza quasi divino nella sua infallibilità algoritmica, è che ha così tanto delegato la capacità di discernimento alla tecnologia che non è più capace di prendere decisioni basate sull’intelligenza emotiva e quindi di distinguere il bene dal male, ciò che è giusto da ciò che è sbagliato.
Don’t look up ci insegna che c’è una differenza profonda tra uno strumento e un obiettivo e confondere questi due aspetti può essere molto pericoloso.
Decidere di salvare il pianeta o fare molti soldi è una scelta sostanziale (anche al di là della trama di un film) e non può essere delegata a un algoritmo. L’Intelligenza artificiale suggerisce il come fare, non il cosa fare.
L’artificial intelligence può supportare i decisori a compiere delle scelte, ma non può dire qual è la funzione obiettivo su cui basare quella decisione.
Se vogliamo che i buoni propositi di business per il nuovo anno non restino dei desiderata, ma si trasformino in traguardi, le azioni da compiere sono:
1. fissare degli obiettivi realistici ma sfidanti;
2. pianificare le risorse da mettere in gioco;
3. dotarsi di strumenti di analisi e controllo;
4. ricalcolare e ripianificare se e quando necessario;
5. utilizzare l’intelligenza artificiale di Ublique per svolgere al meglio i punti 1, 2, 3 e 4.
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